Recensioni

Daniele Albatici nel suo percorso artistico ha incontrato più volte la rilettura della Divina Commedia. Quest’artista, nato e vissuto a Ravenna, non poteva che incontrare Dante nel suo cammino tra le vie di questa città bizantina. Albatici ha dialogato con il sommo poeta, anzi come sua abitudine, ha ascoltato non interrompendo la poesia e le disquisizioni filosofiche di Dante.

Nei dipinti di Daniele Albatici ci sono le sintesi di questo incontro, un déjà vu del suo conscio-inconscio, continua questo dialogo poetico e va oltre, mettendo il proprio sentimento, la cultura Cristiana Cattolica, la poesia non scritta, ma descritta con i colori e simboli. I quadri di Albatici sono dei racconti che oltrepassano la storicizzazione della Divina Commedia, sono suggestioni sentite con la mente, come la fede cristiana è il suo tramite.

Per comprendere questi dipinti bisogna fermarsi come il viandante alla fonte; socchiudere gli occhi e ascoltare la musica corale espressa dalle pennellate. Gli angeli, le pecore, le fronde degli alberi, i cambiamenti repentini dei cieli, questi sono i protagonisti del coro. Daniele Albatici quando ha il pennello in mano lo fa muovere tramite l’anima, come un contemporaneo Beato Angelico.

Giuliano Vitali

Il Cammino di Dante presentato in queste vetrine è arricchito da una serie di opere del pittore ravennate Daniele Albatici, che da anni, affascinato dalla poesia di Dante, va traducendo in immagini e colori passi e personaggi della Divina Commedia. L’artista, che già in altre occasioni ha offerto al pubblico le sue “letture” dantesche, prende sempre le mosse dalla “selva oscura”, qui raffigurata efficacemente non come un bosco statico e tenebroso che evoca timori e antiche paure, ma come un topos che richiama invece una “foresta spessa e viva”, con una fuga prospettica che conduce il pellegrino Dante, che qui rappresenta l’umanità, a convergere verso quel punto all’infinito che è meta ultima alla quale tende il poeta.
Le interpretazioni di Albatici costituiscono un percorso artistico che va di pari passo con il Cammino di Dante, qui raffigurato da itinerari fra Ravenna e Fiorenze lungo sentieri che attraversano boschi e foreste e che grazie al pennello di Albatici traducono in immagini la metafora del peregrinare dantesco.

Franco Gabici

Mi sono trovato qualche tempo fa di fronte ad un signore che, conoscendomi come insegnante di scultura e come pittore di genere figurativo, mi chiedeva se ero interessato a dipingere il Palio di Faenza, sua città natale, di cui mi spiegò vari aspetti e caratteristiche, sia del Palio che della città che mostrava di amare veramente tanto. Mi spiegò che questa gara tra i rioni, che risale al lontano medioevo, consiste in tornei, o giostre, o gare di coraggio e di abilità, che hanno come presupposto un grande rispetto per gli animali.

Il tutto dedicato a San Pietro, Patrono della città. E ti pare poco! Subito nasce la domanda: come l’hanno raffigurato gli altri bravi artisti che mi hanno preceduto? Come si fa a rispettare un tema, una persona di tale importanza storica standosene sacrificati in un formato lungo e stretto, 73 cm X 253 di altezza? Tanto più che, così come gli altri che mi hanno preceduto, non voglio fare qualcosa di scontato, di banale. Va bene che si tratta di un’insegna, un emblema che andrà in premio al rione primo classificato nel Palio del Niballo, che deve raffigurare i simboli dei rioni e della città, ma deve anche rappresentare ed esprimere quello che sento io in merito alla gara, alla città e al Santo, che non è mica un Santo da poco: è quello che tiene le chiavi del Paradiso, ed è meglio tenerselo buono, che non si sa mai…

Ed ecco un’altra domanda fondamentale: chi è Pietro, o, meglio, Simone detto Pietro? Secondo i Vangeli è un povero pescatore, che Gesù, sulle sponde del mare di Galilea, chiama insieme ad Andrea, suo fratello, dicendo: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”. E lo seguono subito, diventando così i suoi primi discepoli. Simone è un uomo passionale, generoso, che non calcola, uno che si butta, con le parole e con i fatti. Nei Vangeli il suo nome è ricordato in continuazione, perché è uomo di azione, uno che mette lingua dappertutto, uno che interviene spesso, uno che qualche volta vuole addirittura insegnare a Gesù cosa deve fare, il primo a riconoscere in Gesù “il Cristo, il Figlio del Dio Vivente”  Mt 16, 15.

Proprio per questa sua frase il Cristo gli attribuisce un merito speciale, con delle parole che sono oggetto di discussione ancora oggi. Gli dice: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt16, 17-20). Lo chiama “cefa”, che in aramaico significa roccia, o pietra: da qui esce il suo nuovo nome Pietro, che sottolinea la sua trasformazione, la sua “promozione di grado”. È diventato una specie di primo ministro del Cristo, il suo massimo rappresentante sulla terra (rappresentante, non sostituto).

Non molto tempo dopo, nel corso dell’ultima cena, mentre Gesù profetizza che quella stessa notte tutti i suoi discepoli rimarranno scandalizzati Pietro affermerà orgogliosamente che “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai!” (Mt 26, 33 e Mc 14, 29). Secondo Luca (22, 31-33) Pietro afferma: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Anche Giovanni nel suo Vangelo ricorda che Pietro promette di dare la sua vita per Gesù (Gv 13, 37). E Gesù, in risposta a questa promessa, come riportano tutti e quattro i vangeli, predice che Pietro, prima che il gallo canti, lo tradirà tre volte “In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte”.

E difatti, dopo poche ore, nel cortile del sommo sacerdote, mentre Gesù viene interrogato, accusato e minacciato di morte, Pietro dopo che si è scaldato al fuoco, perché faceva freddo, rinnega per tre volte di conoscere Gesù: anzi, secondo Marco e Matteo comincia a imprecare e a giurare di non conoscere quest’uomo. Per tre volte, il numero giusto per rompere un contratto, rinnega di conoscere Gesù. “E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: “prima che il gallo canti, oggi mi tradirai tre volte”. E uscito fuori pianse amaramente.” Lc 22, 60-62.

Ecco che Pietro si rende finalmente conto di aver tradito Gesù, cui poco prima aveva giurato fedeltà. Sente la terra spalancarsi sotto i propri piedi, l’abisso dell’abiura che lo inghiotte.

Gesù. Quello che accetta di morire in croce. Lui che è il Messia, il Figlio di Dio. E nonostante questo si lascia umiliare, fino alla morte più ignominiosa per un essere umano, la morte di croce.

Come sempre Gesù ribalta le nostre credenze, le nostre idee e le nostre certezze. Probabilmente ci si aspettava un riscatto, un trionfo, una vittoria fragorosa e indiscutibile da parte sua. Invece offre la propria morte, dileggiato, abbandonato dai suoi discepoli, tranne Giovanni, la madre Maria e qualche pia donna.

Poi. La risurrezione.

Le donne che scoprono la tomba vuota e vanno ad annunciarlo agli undici. I due discepoli che corrono alla tomba e Giovanni che si ferma sulla soglia per lasciare la precedenza a Simone Pietro.

Ma è sulla sponda del lago di Tiberiade che Simone Pietro capisce di essere stato perdonato. È subito dopo la “pesca miracolosa”, dopo che hanno mangiato del pesce e del pane che il Signore ha offerto loro. Per tre volte Gesù chiede a Pietro: “«Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?»…  Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio.” Gv 12, 15-19.

È una vicenda paradossale, difficile da capire. Un uomo coraggioso ha tradito il suo Re e il suo Dio. Allora forse per capire meglio Pietro dobbiamo rifarci a San Paolo quando spiega, nella prima lettera ai Corinzi:

“Cristo infatti… mi ha mandato a predicare il vangelo; non però con un discorso sapienteSta scritto infatti:

Distruggerò la sapienza dei sapienti

e annullerò l’intelligenza degli intelligenti.

E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani… Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio... perché, come sta scritto:

Chi si vanta si vanti nel Signore.” (1 Cor 1, 17-31)

Ecco, dopo queste parole di Paolo possiamo capire meglio la figura di Simone, detto Pietro. Impulsivo, generoso, combattivo, orgoglioso, quasi spaccone… ha dei tratti del carattere che sembrano raffigurare un romagnolo! Eppure diventa un traditore, e così scopriamo che è come noi, con le sue debolezze e le sue vigliaccherie, le sue fanfaronate: salvo pentirsi “amaramente”.

E questo ce lo fa sentire umano e ce lo fa amare nelle sue fragilità. Non è un supereroe. È un essere umano, proprio come noi.

Ho voluto dipingere la notte di Pietro collocandolo in uno spazio vuoto, quello stesso vuoto che sente dentro di sé, riempito da un albero sui cui rami si alza un gallo a urlare la vergogna e il dolore dell’uomo. Lontano il chiarore dell’alba livida che si leva ad annunciare il giorno terribile della morte di Gesù.

È quanto ho cercato di raffigurare nel Palio, non il Pietro della “pesca miracolosa”, non il possessore delle chiavi del Cielo, ma un Pietro dispiaciuto, addolorato, diviso in sé stesso, con un piede rosso perché era stato vicino al fuoco, l’altro freddo come il gelo che gli è penetrato nel cuore, quel gelo che solo il suo Signore potrà riscaldare col suo perdono, perché egli è veramente il Dio della misericordia, quel Dio che sa avvicinarsi alla debolezza dell’uomo abbracciandolo e sollevandolo dalla sua caduta.

Daniele Albatici, Faenza, 20 maggio 2019

La rilettura dell’opera dantesca, nell’Albatici, funziona come esercizio non di stile, bensì di genesi intima, sospinta da una energia espressionista che si ritrova, tal quale, nelle pennellate, nelle cromie, cui sono affidate le narrazioni. L’Albatici procede secondo una drammaturgia che poco ha a che fare con l’illustrazione – si veda anche Doré – piuttosto Egli sceglie e cristallizza istanti, cattura fulgidi barlumi di sentimento delle terzine al fine di trarne una inusitata e personale interpretazione, che agita la scena secondo i termini di una sincopata grammatica, un verso pittorico che, d’un tratto, restituisce all’astante un magmatico sguardo che, seppur attento a restituire una sorta di itinerario estetico, si muove nell’alveo di un focus incardinato attorno alla dimensione spirituale, alla enigmatica scrittura di Dante per una misterica apparizione pittorica.
Quella di Daniele Albatici è una pittura che, seppur mediatrice tra letteratura, storia e rappresentazione, si fonda, invero, sulla infinita determinazione di lirica immanenza, in una ‘divina’ concatenazione di pathosformeln.

Azzurra Immediato, Galleria Farini, Bologna 2019

5 maggio 2017

Una mostra nell’ambito del gemellaggio Speyer-Ravenna! E così vi ringrazio in primo luogo il presidente degli Amici di Speyer-Ravenna, Barbara Mattes, per l’organizzazione di questa mostra e, naturalmente, per vari aiuti nell’organizzazione e nella conduzione di questa mostra.

Il pittore Daniele Albatici è nato nel novembre del 1950 a Ravenna e cresciuto nella nostra città sorella italiana. Quando aveva sei anni, i suoi genitori si sono separati – Daniele allora viveva con la madre, che ha avuto molte difficoltà in quanto da sola. Per guadagnarsi da vivere, ai tempi lo stipendio delle donne era inferiore a quello degli uomini, la madre ha dovuto fare vari altri lavori oltre quello di operaia in una fabbrica: attività minori come lavandaia, e cameriera. Suo figlio Daniele, però, è rimasto segnato profondamente dal carico di sofferenza della madre e dall’ingiustizia che ha sofferto.

È possibile vedere e riconoscere i molti ritratti di donne, che mostra il pittore qui; esprimono l’esperienza di vita delle donne, i loro problemi e preoccupazioni.

Dopo il liceo, Daniele ha studiato arte presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, indirizzo scultura. Nel 1973 ha conseguito il diploma. Dopo varie esperienze lavorative ha poi dato lezioni d’arte presso varie scuole e insegnato per circa 20 anni  scultura nella sua città natale presso il Liceo Artistico, una scuola superiore con un focus sull’arte. La pittura, che era parte dei suoi studi, ha funzionato per anni piuttosto incidentalmente.

Se fosse necessario, si deve dire che è stato attivo anche come musicista e ci sarà permesso ascoltare esempi delle sue capacità musicali il giorno 21 maggio per  l’evento di chiusura.

Arte, la pittura è una questione esistenziale per Daniele – determina e forma tutta la sua vita. Egli è pienamente consapevole delle proprie capacità creative. La creazione d’arte e operare con l’arte non è un passatempo, ma un bisogno di vitale importanza per lui.Pertanto, la sua identificazione con l’idea di Wassily Kandinsky: (cito testualmente): ““La vera opera d’arte nasce “dall’artista” in modo misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità e diviene un soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una vita concreta. Diventa il respiro dell’essere.” (Lo spirituale nell’arte, Kandinsky).

Perché affascinato da questa idea, Daniele è fin dagli anni dell’adolescenza impegnato artisticamente. E nella sua nativa Italia, trova nei vecchi maestri numerosi modelli, che egli riconosce e lo guidano nella sua ricerca. Chiunque sia stato nella sua città natale di Ravenna, dove le pietre, piuttosto le tessere parlano capirà e sarà in grado di capire con quanta energia  l’arte sottomette i suoi spettatori. Nessuno può sfuggire lo splendore dei mosaici nelle chiese. Qui attraverso l’arte è disegnata l’immagine della perfezione, il cielo. Il sacro diventa visibile e affascina lo spettatore, anche il non-credente. Queste impressioni hanno profondamente influenzato Daniele.

L’effetto che emana da questa grande arte, Simone Weil ha descritto con un paio di frasi di cui Daniele Albatici si è appropriato (cito): “La grande pittura da l’impressione che Dio sia in contatto con un punto di vista sul mondo, con una prospettiva, senza che né il pittore né chi ammira il quadro s’intromettano a turbare il faccia a faccia. Da qui il silenzio della grande pittura. Per questo non c’è grande pittura senza santità o qualcosa di molto simile (Quaderni III).”

Fu con questa coscienza che i pittori del Romanticismo tedesco e soprattutto i Nazareni hanno dipinto le loro opere. Arte è stata per loro una rivelazione del divino, una Parola di Dio agli uomini. La creatività artistica e la religiosità personale è andato di pari passo e non è esagerato dire che l’arte e l’attività creativa era una specie di culto per loro. Daniele Albatici sarà immediatamente d’accordo a collegarle, in quanto la sua fede e l’arte si saldano in una sola unità.

         Lasciatemi andare ora dalla vita dell’artista al suo lavoro.

74 opere Daniele ha portato, soprattutto dipinti ad olio su tela, MDF o masonite. Inoltre, una manciata di disegni a matita e grafite. Secondo le tre sale messi a sua disposizione, egli mostra tre gruppi di soggetti:

  • studi realistici, vale a dire paesaggi e nature morte
  • dipinti religiosi  
  • immagini della “Commedia” di Dante

Nella prima divisione, nella sala 1, vediamo paesaggi emersi dalla natura, e nature morte fatte in laboratorio. Naturalmente, il pittore lo dedica all’ambiente ravennate, che è circondata da ampie zone umide. Scene spettacolari con cascate, mete turistiche popolari, capanni da pesca con grandi reti tese, pinete, zone umide si svolgono nelle immagini di vari formati. Uno stile di pittura molto realistico, oggettivo, orientato, riflette le nature morte composte con cura, in cui gli oggetti naturali, frutta, conchiglie, sono in combinazione con i vasi.

Qui è sorprendente: Daniele è un amico della pace armoniosa. Nessuna macchina, nessun camino, nessuna automobile, nessun industria turba la pace della natura e delle cose.

La seconda sezione, che vediamo nella sala in cui ci troviamo, è dedicata alle rappresentazioni religiose. Aggiungo: è vero che, nel presente si trova difficilmente un pittore che si occupa di motivi biblici. Anche se è di moda da anni che i pittori importanti come Gerhard Richter, Imi Knoebel, Neo Rauch, fanno in cattedrali e chiese vetrate colorate, a Colonia, Reims, Naumburg, ma nessuno di loro avrebbe il coraggio di proporre motivi religiosi all’esterno delle chiese.

Non così Daniele Albatici: egli è orgoglioso di aver fornito  i suoi quadri per una chiesa vicino a casa sua. E riempie anche il più grande spazio espositivo della sua mostra a Speyer di queste immagini; per lui, cattolico praticante, una questione naturale.

Soprattutto le donne della cerchia di Gesù, sua madre Maria, Maria Maddalena, la donna adultera, l’anziana Anna vengono presentati con particolare simpatia. Nei loro volti si riflette  una profonda familiarità con la vita – Goethe lo chiamerebbe “l’eterno femminino” una conoscenza sulla profondità dell’esistenza, del dolore, della delusione, della morte. Un’immagine desidero sottolineare a causa dello stile distintivo della pittura, “La Presentazione di Gesù al Tempio”. Essa mostra il bambino Gesù e sua madre con le facce immacolate, affiancati da due persone anziane, Anna e Simeone, dipinti con una pennellata inquieta, che sottolinea ed evidenzia i segni del tempo e della morte imminente.

Il terzo gruppo di quadri, nella camera e nel foyer al piano superiore, si occupa della “Divina Commedia” di Dante, scritta nei primi decenni del 14 ° secolo. Seguendo credenze cristiane il poeta descrive una passeggiata attraverso i tre regni dell’aldilà: Inferno, Purgatorio, Paradiso; il suo incontro con le anime dei morti, spesso appartenute a nomi famosi. Contenuto della Commedia è la visione delineata con dettagli realistici e precisi, riportando sanzioni nel campo dei dannati, l’Inferno, la penitenza dei penitenti del Purgatorio, e la ricompensa per gli esseri umani, il Paradiso. I dipinti di queste tre aree sono stati appesi nella camera superiore. Per quanto riguarda queste immagini c’è uno stampato con spiegazione dettagliata che cita anche i passi delle Cantiche di Dante, io non sono qui  a relazionare su di esso. Prendete un po’ il tempo per dare un’occhiata più da vicino a esso.

Vorrei concludere la mia presentazione con un’osservazione. Uno si esprime soddisfatto delle immagini: “Si può vedere qualcosa di nuovo nei quadri”, altra è la pittura realistica e colorata troppo antica.

Gerhard Richter, certamente il più famoso tedeschi artisti contemporanei, ha detto: “L’esperienza mi ha insegnato che non v’è alcuna differenza tra una cosiddetta immagine realistica, come un paesaggio, e una pittura astratta, entrambi hanno un effetto simile sullo spettatore.”

Sedetevi per gustare al meglio gli effetti dei quadri di Daniele Albatici.

Franz Dudenhöffer, Direttore della Städt. Galerie di Speyer, Deutschland

Mostra di Daniele Albatici Sala Pertini, Santa Sofia (Forlì) 21 agosto 5 settembre 2015

Si svela piano piano Daniele Albatici. Una vita come docente al Liceo artistico di Ravenna ad insegnare scultura, studi all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna e poi all’Accademia delle Belle arti di Bologna, pittore, cantautore e appassionato delle colline e delle montagne del forlivese dove si reca spesso e dove vive lunghi periodi immerso nei silenzi dell’Appennino tosco-romagnolo. I suoi luoghi magici a Giunchedi, in località Spescia – Camposonaldo, a Corniolo, a Collina di Civitella, passando per Premilcuore e l’Acquacheta.

Albatici l’ho conosciuto di recente dopo una sua telefonata che preannunciava l’apertura il 21 agosto della sua mostra al centro culturale Pertini di Santa Sofia dedicata ai 750 anni della nascita del sommo poeta con la richiesta di una mia presentazione al dépliant della mostra stessa. Ci siamo incontrati, annusati e piano piano l’artista ravennate si è svelato, almeno un po’. Poi la comune passione per Dante e l’Appennino ha fatto il resto. Albatici è un artista a tutto tondo, un pittore vero con sensibilità dichiarate che rimandano non solo ai suoi studi, ma alle letture e all’ascolto delle lecturae Dantis che a Ravenna vantano autori come don Giovanni Mesini, Vittorio Sermonti e ultimamente padre Alberto Casalboni.

Come scrive infatti il presidente del comitato ravennate della Società Dante Alighieri Franco Gàbici estimatore da sempre del nostro: “Albatici ha sempre seguito le letture di padre Casalboni e ha dichiarato espressamente che i suoi lavori sono il frutto di quelle lezioni e dimostrano la vitalità del messaggio dantesco che, grazie ad artisti come Albatici, esce dalle pagine dei libri per farsi immagine e comunicazione”. Ma vediamoli questi lavori sugli episodi della Divina Commedia tradotti in 20 quadri di grandi dimensioni a cui si aggiungeranno opere di grafica a matita e a carboncino senza contare che nell’itinerario della sua esposizione è contemplata anche una visita ai quattro dipinti eseguiti al santuario della Madonna degli Occhi di Collina di Pondo.

Di getto vedendo le sue opere ho pensato all’americano Edward Hopper anche se Albatici si riconosce nel lascito artistico soprattutto di Rembrandt e Caravaggio e non ci sono le solitudini del pittore statunitense nelle sue opere e quasi si scusa di avere pronunciato solo il nome di questi sommi geni della storia dell’arte. Ma i suoi quadri riescono molto bene a rappresentare la Divina Commedia per immagini, dalla visione di S. Romualdo ravennate e fondatore dell’ordine camaldolese, all’albero della conoscenza’ del 2009 (matita su carta) che gli è costata 25 giorni di lavoro, alle rappresentazioni di Caronte, Lucifero, Paolo e Francesca, passando per S. Francesco, personaggio da lui particolarmente amato, fino alla raffigurazione delle 70 figure degli avari e dei prodighi e alla ‘rosa mistica’. Un itinerario in immagini coinvolgente per il visitatore che lo indurrà a riprendere in mano la Divina Commedia e a rileggersi le terzine immortali conosciute in tutto il mondo.

Oscar Bandini, Santa Sofia 2015

Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente? (Inferno, canto 8, versi 84-85)

Mostra di Daniele Albatici 8 maggio – 8 giugno 2014 Ravenna, Museo Dantesco, via Dante Alighieri

La Divina commedia da sempre è stata considerata una fonte di stimoli e di ispirazioni e illustrare le terzine dantesche è un banco di prova per testare la maturità di un artista. Illustrare Dante è impresa che davvero “fa tremar le vene e i polsi” ma al tempo stesso è anche assai stimolante, come dimostra Daniele Albatici che continua la sua personale lettura delle terzine dantesche e dopo la mostra dello scorso anno si ripresenta oggi con una serie di quadri nei quali, per essere in sintonia con l’Inferno, prevalgono soprattutto il “bianco e nero” e i chiaro-scuri. Ma c’è un altro aspetto da sottolineare ed è la straordinaria vitalità e attualità di Dante. Dante è associato alle letture integrali della Commedia proposte prima da don Giovanni Mesini e successivamente da Vittorio Sermonti e in tempi più recenti da padre Alberto Casalboni, che continua a leggere (e a commentare) le cantiche dantesche e a suscitare nel suo pubblico un interesse per il poema. Albatici, che ha sempre seguito le letture di padre Casalboni, ha dichiarato espressamente che i suoi lavori sono il frutto di quelle lezioni e dimostrano la vitalità del messaggio dantesco che, grazie ad artisti come Albatici, esce dalle pagine dei libri per farsi immagine e comunicazione. E come anticamente i mosaici delle nostre antiche basiliche avevano il compito di rendere accessibile al grande pubblico la teologia così questi nuovi “mosaici” di Albatici possono aiutare a diffondere il messaggio dantesco attraverso la mediazione dell’arte che, attraverso il disegno, rende attuale la voce dell’ “altissimo poeta”.

Franco Gàbici – Presidente Comitato ravennate Società Dante Alighieri

Questa mostra di Daniele Albatici si apre con un omaggio alla tesi di Giovanni Pascoli che nella Mirabile visione sostenne che Dante scrisse a Ravenna non solo gli ultimi canti del Paradiso ma tutta la Commedia. E la prima tavola mostra infatti un Dante smarrito dentro una selva che ha tutti i connotati della nostra secolare pineta, il grande bosco che fu fonte ispiratrice di molti poeti. La pineta sovrasta Dante che sta dirigendosi là dove si fa sempre più folta e il pino spezzato in primo piano ha tutta l’aria di una raffigurazione simbolica di un evento drammatico che entrò come una folgore nel mezzo del cammin della vita del poeta.

Il pennello e la matita di Albatici danno vita e colore ai versi danteschi che nella loro sequenza costruiscono un itinerario di salvezza che dalla selva conduce alla Verità, simboleggiata alla fine del percorso dalle tavole dedicate ad alcuni momenti del Vangelo. Vanno colti, in questo suggestivo itinerario, gli aspetti ravennati evidenziati ancora una volta dal paradiso terrestre e dalla figura di San Pier Damiani, qui raffigurato insieme all’icona della Madonna Greca all’epoca venerata nella casa di Nostra Donna in sul lito adriano.

Fra le figure del Paradiso emerge, non a caso, la figura di San Francesco al quale Albatici dedica una tavola per ricordare il ruolo determinante che i figli di San Francesco ebbero nella ben nota vicenda del trafugamento delle Ossa di Dante, gelosamente conservate e restituite alla città. Albatici passa con disinvoltura dal cromatismo al bianco e nero riuscendo sempre a cogliere il senso dei versi per farlo risaltare in tutta la sua forza.

Questa mostra è un omaggio a Dante nella città di Dante e al tempo stesso un invito a mantenere sempre accesa la fiammella del culto del Poeta e della sua opera. Ogni visitatore dovrebbe identificarsi con quel Dante che sta all’ingresso della “selva oscura”, non certo per trovare smarrimenti e paure, ma per trarre il coraggio di intraprendere l’arduo cammino verso la Verità, un invito particolarmente significativo perché rivolto proprio in questo 2013 che papa Benedetto ha proclamato “anno della Fede”.

Franco Gàbici (Presidente della Società Dante Alighieri) Ravenna, 1-4-2013 Ravenna, 1-4-2013

A cura del Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali di Ravenna

Una mostra di Daniele Albatici sulla Divina Commedia, dal titolo “La divina parola – immagini”. La mostra pittorica di Daniele Albatici è ospitata dal 1 aprile fino al 12 maggio nella sala Ragazzini (largo Firenze, a fianco dell’abside della chiesa di San Francesco). E’ aperta al pubblico tutti i giorni dalle 10.30 alle 12.30 e dalle 15 alle 18.30.

Così si legge sul sito del Centro Dantesco dei Frati Minori conventuali di Ravenna. Vi campeggia accanto la grande immagine (cm 100X120) della “selva selvaggia e aspra e forte” dell’Albatici. Nell’apposito albo dei visitatori si può scorgere la firma dei numerosi visitatori con l’espressione della loro meraviglia. Alcuni commenti, anche di persone fuori dai nostri patrii confini, sono assai lusinghieri: è divertente leggerli, all’inizio come alla fine del percorso che ci accompagna lungo l’iter dei Tre Regni Ultraterreni del Sommo Poeta.

Davvero il cammino è affascinante. Non pare superfluo notare come il quadro, quale fotogramma nella sua fissità, sia la traduzione efficace di quell’attimo eterno che è il mondo senza tempo del mondo a venire. Si diceva fissità, ma certamente non insensibilità, e la mano dell’Albatici è maestra nel descrivere la miriade di sentimenti che attraversano mente e cuore dei personaggi: volti, mani, gesti, posture, insomma un intreccio dell’umanità sofferente, ma anche della paziente attesa, e della imperturbata e imperturbabile serenità del possesso. Il percorso può essere rapido, ma ciascuno della trentina, e oltre, delle immagini si presta alla riflessione, a rivivere il messaggio di Dante e insieme del Vangelo cui molto spesso e Dante e lo stesso artista si ispirano, senza nulla togliere alla vita reale che lo incarna. Un percorso dunque affascinante, per dirla con gli ammirati visitatori. Personalmente, se dovessi scegliere su quale immagine più a lungo sostare, additerei tre diverse realtà: lo sguardo fiero di Caronte, il delicato intreccio delle dita di Paolo e Francesca e la composta Attesa della Vergine; ma qui la soggettività è certamente incontrastata regina!

Padre Alberto Casalboni (Frate Francescano dell’Ordine dei Cappuccini, fa pubbliche letture settimanali della Divina Commedia a Ravenna)

Il Risveglio del 25-4-2013, Ravenna

A cura del Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali di Ravenna

Le donne nella Bibbia e nella Commedia: Cenni. Le donne in Daniele Albatici

La galleria di Albatici privilegia la Prima cantica: 15 quadri raffigurano personaggi o scene infernali quattro il Purgatorio e 10 il Paradiso, nonché disegni 33 in tutto, dunque.

Ovviamente la scena di apertura non poteva che aprirsi con la “selva”, un intreccio, un oscuro groviglio di alberi, arbusti, a significare la confusione etica e mentale di Dante e di ciascuno di noi, insomma un inferno di situazioni personali e dell’intera umanità. Ad introdurci in questo labirinto la figura di Caronte di memoria virgiliana, il traghettatore inflessibile ci traghetta verso quel mondo senza ritorno, un mondo di peccato irredento e sempre, eternamente e irrimediabilmente, fisso, nell’attimo senza tempo.

NB – Troppi tuttavia sarebbero i temi e i personaggi presenti nella galleria del pittore; allora trascelgo un tema specifico: La donna e le donne, con una premessa biblica e della Commedia.

Le Donne[1] Nella Divina Commedia – un breve cenno.

Nella Commedia troviamo donne della sacra Scrittura, del mito, della classicità; donne protagoniste, donne evocate e donne metaforiche. Sparse nelle tre cantiche:

Inferno:  Le tre donne deI canto, la Vergine, Lucia e Beatrice; poi la Fortuna, le tre Furie, le Arpie; la vergine-eroina Camilla, Manto e le indovine, Taidè, Mirra; la moglie di Putifarre; Francesca da Rimini e le donne-amanti (V canto).

Purgatoriole donne del Paradiso terrestre, Matelda, Lia e Rachele; Costanza, (figlia di Manfredi), Giovanna (moglie di Bonconte da Montefeltro), Giovanna Visconti e Beatrice d’Este (rispettivamente figlia e moglie di Nino Visconti), Alagia (nipote di Adriano V), Nella e le donne fiorentine (la moglie di Forese Donati),  Pia de’ Tolomei, Sapia di Siena, Gentucca di Lucca; la “Femmina Balba”, la “puttana sciolta”.

Paradiso: Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla, Cunizza da Romano – Donne evocate: Raab

Le donne di Daniele Albatici 

  1. 1. Francesca da Rimini, nel primo cerchio dell’Inferno, fra i peccator carnali (If canto V);
  2. 2. Nella seconda bolgia infernale sono colpiti maghi e indovini, Manto soprattutto, la fondatrice di Mantova che campeggia al centro del disegno: e dunque un omaggio a Virgilio (If Canto XX);
  3. 3. Nell’Anti-purgatorio, Pia de’ Tolomei, fra i “per forza morti” morti di morte violenta (Pg Canto V);
  4. 4. La Samaritana, simbolo della sete di sapere (Pg Canto XXI);
  5. 5. L’adultera, a rappresentare Raab e Cunizza da Romano.
  6. 6. Onore alla Vergine, che compare sia all’inizio che alla fine della Commedia, qui con tre immagini: l’attesa, la Madonna greca e la personale devozione di Dante verso la “Rosa mystica” (Pd XXIII);

Vediamole in ordine di apparizione nella Commedia:

  1. 1. Paolo e Francesca – Inferno Canto V, 139-143

Mentre che l’uno spirto questo disse,/ l’altro piangea; sì che di pietade/ io venni men così com’io morisse./ 

E caddi come corpo morto cade.

Siamo subito confrontati con il peccato più comune, universale, quello del sesso, ma diremmo meglio, quello dell’amore passionale, adultero, ma autentico: quel legame li unisce eternamente, significate da quell’intreccio delle dita destinate a durare nell’attimo eterno: mai pittura ha reso appunto questo attimo fisso per sempre, senza moto, perché senza tempo. La cosa strana in Dante è che tale legame nulla ha di odio a causa della comune dannazione, ma anche sul loro volto perdura quella tenerezza, significata dalla partecipazione di Paolo alle parole di Francesca: troppo anche per Dante, al punto di venir meno al cospetto di tante e tali emozioni. Certamente Conosceva Dante la storia dell’inganno: le fu presentato Paolo e scoprì poi che lo sposo era il deforme Gianciotto.

  1. 2. Manto – Inferno Canto XX, 10-24

Come ‘l viso mi scese in lor più basso,/ mirabilmente apparve esser travolto/ ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso; – ché da le reni era tornato ‘l volto/ e in dietro venir li convenia,/ perché ‘l veder dinanzi era lor tolto./ quando la nostra immagine di presso/ vidi sì torta, che ‘l pianto de li occhi/ le natiche bagnava per lo fesso./

Certo in omaggio a Virgilio, quanta pietà e commiserazione, suscita in Dante questa pena, questo volto capovolto che riversa le umane lacrime “per lo fesso”.

  1. 3. Pia de’ Tolomei – Purgatorio Canto V, 130-136

Deh, quando tu sarai tornato al mondo,/ e riposato de la lunga via/ ricorditi di me che son la Pia;/ Siena mi fe’, disfecemi Maremma:/ salsi colui che ‘nnanellata pria/ disposando m’avea con la sua gemma”.  

Pochi versi, ma di una intensità grande, se paragonati alla calca intorno a Dante:

Noi fummo tutti già per forza morti; 

  1. 4. La Samaritana (Gv 4, 1-30) – Purgatorio Canto XXI, 1-3

La sete natural che mai non sazia/ se non con l’acqua onde la femminetta/ samaritana domandò la grazia,/ mi travagliava, e pungeami la fretta/ per la ‘mpacciata via dietro al mio duca,

Intenso e alto valore simbolico, che rimanda al Convivio: la sete di sapere, se si vuole la curiositas, di Dante e della sua epoca, il suo ritegno in rapporto alle frequenti e trattenute domande alle due guide, Virgilio e Beatrice e alla fine anche a S. Bernardo, oltre che ai tanti protagonisti via via incontrati nella Commedia. Sin dal terzo canto dell’Inferno Dante comincia a chiedere a Virgilio, che per la verità lo richiama ad avere un po’ di pazienza: avvertimento che rende Dante assai prudente nelle richieste di spiegazioni; con Beatrice poi, prima di parlare ne chiede l’assenso. – L’immagine plastica di questo suo ansioso stato d’animo Dante lo rende la figura del cicognino (Pg 10-12):

E quale il cicognin che leva l’ala/ per voglia di volare, e non s’attenta/d’abbandonar lo nido, e giù la cala

  1. 5. L’adultera – o prostitute o amanti…

“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”  – (Giovanni 8, 1-11)

L’adultera: il pittore coglie l’attimo fra l’alterco con i Giudei e il successivo dialogo di Gesù con la donna: lo evidenzia lo sguardo di lei come in attesa del suo giudizio, che tarda perché lo scrive in terra; arguiamo che abbia tracciato le malefatte dei giudici pronti alla lapidazione, come si evidenzia dal mucchio di sassi, lì per lapidare la sventurata, lei colpevole ma non l’adultero-compagno.

– Lc 7, 36-50 – “Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città…:: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato; quello a cui si perdona poco, ama poco». Poi: «Ti sono perdonati i tuoi peccati»…  Brano di estrazione evangelica, non è nella lettera della Commedia, ma è nello spirito della Commedia: la collocheremmo idealmente nel Purgatorio: qualcuno ha interceduto per lei, lo stesso Cristo, dovrebbe purificare qualche inevitabile scoria: a pensare alla invidiosa Sapìa di Siena, nonostante l’orribile e blasfema sfida a Dio è salva per le preghiere di Pettinaio, ora è nella seconda cornice dal basso, ad espiare le scorie del suo peccato, molto più grave di quello dell’adultera, potremmo così collocarla nell’ultima cornice, quella dei “peccator carnali”, il meno grave di tutte le specie dei peccati, come insegna la Commedia. Ma…  perché non in Paradiso? Davvero l’adultera non c’è nella Commedia? Ma, dove sono Raab la prostituta di estrazione biblica, e la scostumata Cunizza da Romano? Entrambe al canto IX!

Cunizza da Romano: “Cunizza fui chiamata e qui refulgo/ perché mi vinse il lume d’esta stella;/ ma lietamente a me medesma indulgo/ la cagion di mia sorte, e non mi noia/ che parrìa forse forte al vostro vulgo”. Raab: “… là entro si tranquilla/ Raab, pria ch’altr’alma/ del triunfo di Cristo fu assunta”.

  1. 6. La Madonna greca

A – Paradiso Canto XXI, 121-123 omaggio del pittore alla città di Ravenna, come del resto la pineta di Ravenna nel Paradiso terrestreIn quel loco fu’ io Pietro Damiano/ e Pietro Peccator fu’ ne la casa/ di Nostra Donna in sul Lito Adriano.

B – Paradiso Canto XXIII, 88-89 Il nome del bel fior ch’io sempre invoco – e mane e sera… – Dante auctor, biografia dunque.

C – Il suo “Fiat” – Il suo “Adveniat” cambierà la storia dell’umanità.

Ravenna, 1 aprile 2013                                                                                                            Padre Alberto Casalboni

(Frate Francescano dell’Ordine dei Cappuccini,

fa pubbliche letture settimanali della Divina Commedia a Ravenna)


[1] La teologa Tea Frigerio (insegnante di Sacra Scrittura e membro del centro studi biblici del Parà) in – Sfida al patriarcato – lettura femminista del libro di Rut, EMI, Bologna, 2011: nella Bibbia ebraica compaiono 1426 nomi di persona, 1315 sono maschi e solo 111 donne, corrispondenti al 9%: le donne poi sono presentate in coppie fra loro antagoniste o comunque posizionate dall’agiografo l’una di fronte all’altra in un rapporto triangolare con il medesimo uomo: Sara e Agar in rapporto ad Abramo, Lia e Rachele in rapporto a Giacobbe, Anna e Peninna in rapporto al giudice Elkana; e, nel Nuovo Testamento, Marta e Maria di fronte a Gesù… fanno appunto eccezione Rut e Noemi….

Una studiata e convinta riflessione del tema della figura umana inserita nello spazio, fra moto plastico e stasi geometrizzante, fra posa ideale e ripresa delle occupazioni quotidiane e di lavoro, è il tema che accompagna l’intera vicenda produttiva di questo artista innato e genuino. La continua meditazione sulle problematiche della resa spaziale della figura trova riscontro, in ogni periodo della sua attività, in una formidabile produzione disegnativa. La figura ‘lineata’, attraverso la sua progressiva geometrizzazione, si pone in rapporto con uno spazio ampio, in un’esperienza artistica che è parte della meditazione stessa. Daniele Albatici desidera e insegue la forma in cui congelare la semplice schiettezza della visione concreta e della percezione ideale, slanciandosi vivacemente nella plastificazione scultorea, così come posandosi nella riflessione pittorica. Pur nella fedeltà alla sua particolare analisi della figura, una scelta di moderazione sembra emergere nella felice pittura dei paesaggi, delle vedute di case o chiese e nelle delicate nature morte. Vivacità cromatica, scorci di grande intensità e un repertorio dell’antico ricercato nelle iconografie, caratterizzano splendidi dipinti ad olio. È un atteggiamento che procede negli anni caricandosi anche di valenze religiose. Semplificazione, abbassamento dei toni, tendenza al lirismo della natura, abbandono progressivo delle ricercatezze pittoriche sono elementi praticati con un atteggiamento analogo a come nella pratica meditativa la vista reale segue la vista immaginativa. L’occhio della mente è la guida ad una rappresentazione assolutamente interiore, di stupore ed emozione, tornata pura dinanzi alla realtà.

Marco Vallicelli – Forlì, Novembre 2011

Lui, Daniele Albatici, non ha mai urlato nella vita, ha sempre parlato sottovoce in maniera un po’ afona, nonostante le sue convinzioni fortemente sentite e difese fino all’eccesso durante gli anni “sessantotteschi”. Qualche “opinionista” l’altro giorno in tv diceva “… voi generazione di sconfitti, fratellastri di Mario Capanna e soci, quand’è che la pianterete di rimpiangere e di scrivere del ’68 …”. Io non penso sia proprio così, indubbiamente si poteva incidere di più sul sociale, crederci di più, fondare le basi per modi nuovi di vivere che prescindessero dalla ribellione giovanile … ma in ogni caso non penso che siano state esperienze ed anni inutili; il dibattito, o meglio, il monologo sarebbe lungo … ma per parlare di Albatici come potrei non riflettere su quegli anni poiché è proprio lì che noi ventenni, in scena, fondavamo le nostre esistenze, fra incontri e scontri, occupazioni ed assemblee nello scenario di un’effervescente Bologna.

Lui sul “campo”, io più osservatore; lui girava in autostop, io leggevo “Sulla strada” di Jack Kerouac; lui era in prima fila a scontrarsi con la polizia ed io in penultima con “12 dicembre” di Pier Paolo Pasolini in tasca”. Lui, Albatici, non è divenuto un eroe della rivoluzione di quelli citati nei libri ed io non sono diventato né poeta né scrittore. Poi il rientro dagli studi accademici, gli anni 1973/74 risentono dell’onda lunga della contestazione; ricordo la nostra partecipazione ad una mostra inaugurata nel Municipio di Alfonsine (Ravenna) ed accompagnata da un manifesto contro le gallerie private, i mercanti d’arte, i collezionisti. Erano eventi che risuonavano e richiamavano l’attenzione e la partecipazione di notevoli nomi dell’arte come Massimo Carrà (storico dell’arte e figlio del pittore), Raffaele De Grada (critico d’arte e direttore d’ accademia di belle arti) ecc…

Altre esperienze hanno accomunato il nostro percorso; ricordo “Elogio alla rivoluzione cilena”(Pablo Neruda era una sorta di giustificazione politico culturale), una performance/happening in Piazza Einaudi a Ravenna di cui non mantengo esatta memoria di chi fossero gli altri artisti partecipanti, mentre ho il vivo ricordo dell’entusiasmo di Giorgio Gaber, invitato per l’occasione in quanto impegnato nel vicino Teatro Alighieri per uno spettacolo, e della sua condivisione nel giudicare l’evento disinvolto, effimero, anarchico e privo dei contenuti retorici di una mostra intesa in senso classico.

Poi le vie delle nostre vite divergevano lasciando ognuno con le proprie “beghe”, i problemi, le soddisfazioni, le scelte … qualcuno ha i capelli ancora lunghi, qualcuno non ha più i capelli, qualcuno ha la pancia, qualcuno ha una nuova moglie, qualcuno una nuova famiglia, qualcuno … qualcuno …è morto. Poi lungo la strada, casualmente, talvolta un’ incontro, un ciao … “…dopo dieci anni ho rivisto l’amico Bob…” cantava Ricky Shayne; ben più di dieci anni, l’ho rivisto volentieri Albatici, sapevo per sentito dire di una sua svolta spirituale e di alcune altre cose (Ravenna è piccola… ed io ultimamente ci sono molto, troppo…)

Poche settimane fa ci siamo incontrati, mi ha parlato di pittura … Lui di pittura !? “… ora dipingo molto … mi sono fatto prendere … mi sembra di dover recuperare il tempo perduto … ti ricordi i nostri insegnanti … ” Mi dice queste cose, ascolto in silenzio ed aggiunge “Vieni a vedere i miei lavori!?” Sono entrato nella sua casa-studio, l’odore di trementina, di vernice, di olio, di pittura, poi strumenti musicali e tele accatastate … tutti quegli elementi “bohemienne”, presenti nella memoria ed inevitabilmente capaci di stupire ancora. Mi regala un cd con sue incisioni musicali e tra un ricordo e l’altro mi sfoglia davanti disegni e tele commentando ogni singolo gesto pittorico quasi con quel senso giustificativo di chi teme la critica, forse vuole un giudizio, forse mi ritiene troppo distante dai suoi lavori, o forse gli piace avvertire la nostra diversità … belli … “li ho eseguiti in plein air” mi dice ” qui stava arrivando un temporale, qui soffiava il vento …”

Le tele, soprattutto mi piacciono, mi ricordano certa pittura americana, partendo da Edward Hopper, paesaggi senza figure, vuoti, atmosferici, però stranamente “maneggevoli” (già il trasporto in plein air credo rappresenti una sorta di omaggio a Francesco Verlicchi), temporalmente più vicino a noi una sorta di New Paintings che ricorda gli artisti che lavorano all’Arcadia Gallery di New York. Paesaggi dipinti con maestria, bloccati come da uno scatto di Polaroid, case, pinete, cieli eseguiti sul luogo per poter catturare come in un’istantanea quella luce, quella sensazione, quell’atmosfera per poter bloccare perennemente l’attimo su una tela. Un risultato avviluppante, altamente emozionante e contemporaneo. “Belle cose Daniele”, credo siano state le ultime parole mentre quel giorno accingevo ad allontanarmi. “Mi fa piacere…” così mi rispondeva, a bassa voce, con una sorta di imbarazzo.

Giuliano Babini – Ravenna, Febbraio 2011

“Ho ascoltato la tua musica e mi sono fatto quest’idea: La tua musica, i tuoi canti, le tue canzoni sono un cuore pulsante di benevolenza. I tuoi dipinti, i tuoi ultimi, hanno invece molta energia di vita che vuole esprimersi, uscir fuori. Come vedi sono sentimenti che sono usciti mentre ascoltavo, vedevo e sentivo.”

Padre Bernardino Cozzarini, Monaco Camaldolese – Camaldoli 15-3-2010

Ho già avuto occasione di scrivere intorno alla pittura di Daniele Albatici. L ‘Albatici dei “volti di Romagna”, una etichetta, tanto per intendersi, e – come tale – restrittiva e, tuttavia, inevitabile – perche, anche non volendolo – oggi si è costretti a porgere subito l’idea prefabbricata di un qualcosa che è per sua natura indeterminato, e libero, quale il risultato di una buona pittura. Ma la gente non ha tempo non ha voglia non ha fede. Il mercato ha le sue leggi. Il respiro per la riflessione è soffocato dalle azioni impellenti. Così un’etichetta serve a collocare entro un certo orizzonte l’artista in questione, fa risparmiare una fatica (che sarebbe invece necessaria) all’osservatore frettoloso, può Indurre a un attimo di sguardo più attento.

Con i «volti di Romagna» il ravennate Daniele Albatici ha ottenuto questa attenzione, e un largo consenso, vuoi per i paesaggi personalizzati e tuttavia fedeli, vuoi per le figure tipiche della gente di campagna, dei luoghi umili ed eterni dove ancora si comunica pur nella coscienza di un ripetuto lavoro oscuro.Ma Albatici non è solo il partecipe cantore della propria terra. In lui è racchiusa – entro silenzi auto imposti – una natura spirituale e umana di insolita grandezza. Una grandezza mi- te come un fiume in piena.Da solo Albatici ha posto i propri argini, deciso a frenare la sua «combattività-orgoglio, per far posto al portare “patientia” convinto che «occorre diventare come la canna che si piega al vento senza spezzarsi». Illuminante un suo pensiero «Affermare il mio ego, imponendomi con la violenza della mia passione e della mia parola, credo non abbia senso, perche genera altra violenza, e in realtà è frutto di una sete di possesso-comando-potere che ora detesto”.

Credo si debba fermarsi a lungo su questa affermazione. Non vi è passività ne rinuncia. Al contrario dimostra la vittoria sull’io e una lucida forza interiore. Allora si guarda Albatici in modo nuovo e la calma di questo esile giovane uomo dalla voce pacata, dai gesti gentili, dal dolce sorriso, dagli occhi venuti da lontano che vedono lontano, ci mette a disagio, è una nota diversa dalle altre cui siamo abituati, non possiamo -questa volta – più catalogarla.Come non possiamo, a tutta prima, catalogare i suoi nuovi grandi, marcati, contenutamente drammatici quadri. Qui la spatola ha sostituito i pennelli, qui i colori non scivolano più in sfumature di luce ma gridano crudi in tessere di spazio, qui le figure, i volti, non traducono realtà quotidiane ma si fanno simbolo atemporale. Così i personaggi intorno alla tavola in primo piano, ognuno caratterizzato in un suo atteggiamento allusivo, diventano trasfigurazione di una possibile «Ultima cena»; così il gruppo raccolto – e al tempo stesso isolato – sulla realtà di una bianca morte intoccabile richiama, senza bisogno di sacre iconografie, l’insoluto mistero di una «Deposizione».

E che dire di quella figura ambigua, mistica e umana insieme, volto d’angelo imperscrutabile, abito di Pierrot lunare, fermo in un gesto assurdo rivolto – e non rivolto – alla classica bellezza incolore (il bruno monocromo lo annulla) di una donna raccolta nel suo profilo come un bozzolo nella sua perfezione?Possiamo trarne significati opposti. Per me – subito – è l’«Annunciazione» in chiave moderna. Dissacrata, forse, e quindi umana. E dolorosa. E fatale. Non posso giudicare l’intenzione di Albatici ma posso citare un altro suo pensiero: «Cogliere la figura umana o vivente dall’interno, senza definire, nella sospensione a-spaziale e a-temporale. Qualcosa di autonomo e di a se stante. Non c’è più un fuori e un dentro, ma solo una corrente che è (vive), senza definizioni». Dove mira questo nostro artista di lunga continua ricerca non soltanto formale non soltanto di contenuto ma anche – e soprattutto – di motivazioni interiori? «Non cerco con la mente, non dipingo con la ragione. Il dipingere è ben altro, è ciò in cui la lingua-ragione non ha più parte. Non si fa arte nuova, di avanguardia, per fare arte nuova. Non lo si fa per scelta razionale-concettuale. Si fa novità perche essa urge dentro, ed esce da tutti i pori istintivamente, senza che nulla possa condizionarla. Si fa novità perche si giunge al proprio «centro». Ed ogni io-centro è novità, in quanto mistero spazio-temporale unico e irripetibile nell’universo».Ci troviamo di fronte a un pittore diverso dai tanti – troppi forse… – sinora incontrati.

Un pittore filosofo, un pittore religioso nella più alta accezione della parola. Quando a muovere la mano è l’anima allora le etichette vanno in frantumi.Albatici affinerà la sua tecnica, quelle «cadute» che il critico esigente può inevitabilmente riscontrare, saranno ben presto risolte. Ma già da oggi è il caso di leggere con occhi diversi, più attenti, sì, più seri, i quadri di un artista diverso, di un artista che non temo di indicare come nuovo. Perché se pure (e per fortuna) rispetta il segno (in quanto lo conosce!) rispetta il colore (in quanto lo ama) usa ancora gli strumenti di sempre (in quanto sa essere umile), non si rende schiavo di sigle («Tutto è movimento. Anche la morte. Non si può parlare di vita e di non-vita. Solo di vita, intesa come mutamento. L’erba secca, la foglia secca, non sono morte. Sono trans-formate. Cambiate di forma. Il fatto di attaccarsi a una forma, porta all’idea di morte»). La novità di Albatici è qui, proprio nell’immediatezza del suo proporsi. Facilità apparente. Apparente discontinuità. («La pittura come la preghiera tanto più si fa povera e umile tanto più si innalza»). Albatici può dipingere il riposo dei braccianti o i capanni sul fiume, gli scorci di Ravenna o la pineta di Dante, le nature «morte» o gli autoritratti con maschera da pagliaccio e paesaggi di neve oltre la finestra, con abiti rinascimentali ed eco di tornei alle spalle.

Tutto questo ed altro ancora che spero vedere negli anni a venire. Non è qui il punto. Il punto è nel senso dell’arte di Albatici. Un senso-intento altissimo: la fusione del «mestiere» e della «coscienza», al fine di giungere alla più vera espressione: quella che passa per la via del cuore. L ‘artista dovrebbe essere colui che vede, e che dona questa vista agli altri. Credo sia la meta di Albatici. Mi auguro, per lui, per noi, che possa raggiungerla.

Vittoria Palazzo – Milano 1981

“La vera opera d’arte nasce “dall’artista” in modo misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità e diviene un soggetto indipendente un suo respiro spirituale e una vita concreta. Diventa il respiro dell’essere.”

— Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte